Le vere eroine delle nostre serie tv sono prive di magia e di iperforza, ma sono considerevolmente più potenti di quelle che le possiedono.
Sono ragazze, giovani donne, alle quali la società e la vita non pongono quasi mai davanti bivi o opzioni, ma spesso imposizioni e costrizioni. La ribellione e la loro volontà creano delle scelte personali, delle possibilità nuove e autonome. È una ribellione scomposta, impulsiva, “uterina”, che è utile a creare la possibilità di autodeterminarsi, anche se non sempre nel solco della rettitudine e della giustizia.
Combattono dunque con le unghie e con i denti, in una realtà cruda e mai filtrata dall’irreale, dal sogno. I loro antagonisti sono più grandi e più spaventosi di demogorgoni e vampiri, perché sono veri. Sono la società e la cattiveria umana, i demoni interiori ed esteriori dell’accettazione di sé e della discriminazione. È facile immedesimarsi in queste battaglie in cui le armi spesso sono il carattere, il coraggio di compiere scelte audaci, la forza di sbagliare a testa alta e col sorriso beffardo, perché sono simili alla vita che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno. Si va dal tradimento, alla droga, dai piccoli reati a quelli più grandi e queste giovani donne sfuggono al loro destino segnato con determinazione e follia. Non sono fughe alla cieca, non mancano il pentimento, il timore, il dolore, insomma tutta la gamma di quanto in molti, magari senza toccare gli estremi rappresentati, hanno attraversato e attraversano. Sembrerebbe che non ci sia niente di speciale in loro, ma in realtà queste guerriere del reale fanno più paura delle altre. Perché agiscono profondamente ancorate al quotidiano, si nutrono di una disillusione e di una praticità che le rendono fortissime perché non hanno niente da perdere, perché hanno cominciato a uscire dai margini che gli hanno disegnato attorno da subito, da sempre. Perché la loro esistenza è di per sé una corsa attraverso un campo di battaglia.
È come se queste ragazze, a volte più sagge di tutti gli adulti che le circondano, e più stoiche di altri loro coetanei, si rendano conto che l’unica via di fuga dal reale, che si accanisce contro di loro, che le travolge con problemi, che pur cambiando di contesto in contesto, rimangono fortemente identificabili con quelle delle adolescenti fuori dagli schermi, sia il reale stesso. Non è necessario uscire dai margini della quotidianità e della cruda realtà per combatterla, ma è necessario essere in grado di muoversi nella giungla urbana con la scaltrezza degli adulti e l’agilità dei giovani, conoscere la strada e le strade, imparare ad accettare i propri sentimenti, anche quelli più estremi come l’amore o la fede, e farne un punto di forza. Insomma per essere protagoniste delle proprie esistenze queste ragazze non hanno bisogno di essere delle eroine, ma devono solo accelerare il processo più difficile della realtà, diventare adulte. Buone o cattive che siano, si muovono con estrema consapevolezza e sono pronte a battagliare con ogni mezzo per quello che vogliono. Niente di più lontano dal vecchio, superato e dimenticato, stereotipo della principessa inerme che viene salvata dal principe azzurro di turno. ( Si fa riferimento ai personaggi femminili di serie come: Mare fuori, Skam Italia, Baby, Gomorra, Subburra, The good mothers …)
L’immagine della giovane addormentata e resa totalmente inattiva da un qualche veleno era già stata largamente scavalcata da storie ben diverse. Abbandonata l’attesa di un uomo carino, pronto a sfoderare un ronzino fresco di piega e una lama affilata, i produttori di sogni del cinema e della tv, già dagli anni settanta avevano costellato i due media di eroine di vario genere, dotate delle più sconvolgenti qualità, dei poteri più assurdi e di una determinazione che aveva smesso di essere solo maschile. Da allora abbiamo eroine mitiche che si muovono in epoche poco chiare (Xena), robottine esilaranti (Super Vicki), principesse ribelli (Disney Productions from Beauty and onwards…), cacciatrici designate capaci di trafiggere demoni (Buffy,l’ammazzavampiri), e ragazzine dalla forza sovrumana a cui sanguina il naso (Stranger Things). Tutte loro sono eroiche tanto quanto lo sono i personaggi femminili delle serie nostrane. È solo un modo diverso di vedere i poteri, il potere. Forse anche per via di un’educazione diversa, di un gusto più concreto, le nostre ragazze vogliono rivedersi sullo schermo, non hanno necessità di fuggire in un mondo lontano, passato, irreale. Forse preferiscono vedersi iconizzate in qualcosa che mentre le distrae e le conforta, suggella la loro importanza. Sono cresciute e crescono con produzioni che non si librano sopra il muro della quotidianità per sfuggirla per allontanarla e risolverne le criticità con magia, stratagemmi, e diavolerie luccicanti, ed è probabilmente anche per questo che non necessitano di vie traverse né per essere intrattenute, né per sfuggire da questa realtà. La conoscono e sono pronte ad analizzarla in maniera tangibile, ed a volte, dolorosa, anche con l’aiuto del mezzo cinematografico e televisivo.
È come se ci si prospettassero due sponde continentali opposte. Una in cui i prodotti, per giovani e non, sono costruiti su un’analisi della realtà che la filtra attraverso lenti colorate, leggermente distorsive, che le conferiscono un’aria diversa. Tutto è avvolto in un’aria magica, ultraterrena, lontana dalla vita vera. Questo se parliamo delle produzioni di maggior successo. Esiste poi un gran numero di serie e pellicole, che pur svolgendosi nella contemporaneità più regolare, la mostrano comunque colpita da un potente faro schiarente. Anche in quelle serie che non sono costellate di veri e propri elementi sovrannaturali, solo in rarissimi casi assistiamo a rappresentazioni crude della realtà, della povertà, dei margini della società, e spesso restano prodotti per un pubblico di nicchia (Shameless, The Bear…). È come se si rifuggisse totalmente la crudele verità per cercare fonti di intrattenimento, orrore, profondità emotiva e analisi attraverso una narrazione che vira sempre verso una dimensione parallela. Per quanto si spinga vicino al vero al massimo raggiunge il verosimile.
Dall’ altro lato le produzioni nostrane ed a noi più vicine invece scandagliano senza alcun timore anche negli angoli più addolorati della verità, per mostrarne ogni orrore e mettere sul piedistallo ogni semplice bellezza che ne fa da contraltare. Le nostre serie si muovono nelle periferie, abbracciano il degrado, si buttano a capofitto nei reati e nel dolore di tutte le generazioni. Ed è proprio questo modo, quasi documentaristico, sebbene sempre nei confini della fiction, di raccontare le vite che le rende così apprezzate. È come se non avessimo alcuna paura di mostrare il dolore proprio per poi scioglierne la durezza nella forza delle azioni dei protagonisti che riescono in qualche modo a svincolarsi dal brutto e che talvolta trovano la spinta per farlo in una bellezza tutta poetica dell’ambiente naturale da cui sono circondati. Sono la bellezza dei luoghi, la storia del paese e la forza del carattere che forgiano il futuro di giovani protagonisti che non hanno bisogno di nient’altro per salvarsi.
Questo solco produttivo certamente non può essere considerato scevro dalla tradizione neorealista dove l’intervento divino, magico, sovrannaturale, non serviva a risolvere le cose, ma solo ad ammorbidire la durezza della verità con un momento di speranza, quasi fine a sé stessa. Un sentimento positivo in un mare di guai dal quale i protagonisti ricevevano una spinta in avanti che spesso non portava a nulla di veramente positivo. Una tradizione da cui deriva la tendenza italiana a non lasciare la realtà, a non allontanarla, a non temerla nemmeno nelle sue forme più dolorose e violente, ma a rappresentarla così com’è e a combatterla con mezzi del tutto naturali.
È forse per questo che le nostre eroine, tornando a loro, rappresentano perfettamente l’emblema di qualcuno che se la cava da solo, con le sue capacità, abilità, ambizioni e sogni, che insieme creano una forza potente, caratteriale e tangibile, in grado di piegare la realtà senza nessuna mistificazione. Sono specchi di ciò che accade fuori dallo schermo, sembrano sussurrare all’orecchio dello spettatore che anche lui può farcela, o consolarlo, nell’accettazione di dolore simile al suo, anche quando amaramente e di nuovo neorealisticamente una soluzione proprio non c’è.