Articolo di Leonardo Campagna
La seconda stagione di Euphoria è finita. Un senso di malessere a questa notizia è innegabile, che sia per questioni rimaste inconcluse, o per il pensiero che dovremo attendere parecchio tempo prima di rivedere dei personaggi fondamentalmente odiosi e problematici ma che in fondo abbiamo imparato ad amare.
Euphoria è sempre più Euphoriamania: gli episodi vengono attesi e sofferti per tutta la settimana, consumati avidamente e commentati in tempo reale sui social come fossero un evento irrinunciabile (anche dagli stessi attori, come Angus Cloud su Twitter), e il resto è un continuo “Euphoria out of context”, teorie complottistiche sulle sorti dei personaggi, meme, montaggi su YouTube delle scene più belle (o più brutte), battute dei personaggi che diventano frasi cult (“Is she auditioning for Oklahoma?”, “Bitch you better be joking”, “Lexi you’re a fucking G!”), almeno fino all’episodio successivo.
Partita come un incrocio fra l’omonima serie israeliana e la personale esperienza di lotta contro l’abuso di droghe del regista Sam Levinson (Assassination Nation, Malcolm & Marie), quella di Euphoria è una ricetta dove ci sono tutti i sapori, e sono tutti forti e distinti: il dolce, il salato, l’amaro, l’acido, che si declinano in tenerezza, amore, disperazione, malinconia, insicurezza, dubbio, disprezzo. Il risultato è puro melodramma, o Melodrama, come l’album di Lorde dal quale è stata tratta“Liability”, la canzone da “cuori spezzati di tutto il mondo unitevi” utilizzata nello speciale su Jules per una scena che è una versione affettiva della scena psichedelica dell’occhio di 2001: Odissea nello Spazio. È un melodramma perché le emozioni sono elevate a livelli esponenziali, anche quando i personaggi non parlano (come nel caso di Cassie, che in certi momenti riesce a trasmettere i propri tormenti interiori senza dire una parola, soltanto con il proprio sguardo riflesso allo specchio), ma anche per il ruolo che ha la musica, drammatico hip-hop elettronico firmato da Labrinth con incursioni di Arca, Billie Eilish, Rosalía, Arcade Fire, Beyoncé, Orveille Peck, Moses Sumney ma anche Madonna, Bonnie Tyler, En Vogue, Depeche Mode.
Al centro del mondo di Euphoria vi è l’adolescenza, narrata come non si vedeva dai tempi di Skins. Per sintetizzarne la discendenza, basta ricorrere ad una delle frasi meme di Twitter: “Skins walked so that Euphoria could run”. Vi è quindi una narrazione di questo tempo della vita per nulla ingentilita, spesso difficile da guardare ma dal profondo impatto emotivo. Ad accentuare tutto ciò, un’estetica da videoclip musicale che ricorda il miglior Xavier Dolan: Cassie in lacrime circondata da fiori come un’Addolorata, Jules come Frida Kahlo con la sua Rue/Diego Rivera disegnata sulla fronte, il trionfante numero musical nello spettacolo teatrale di Lexi sulle tinte omoerotiche della mascolinità tossica.
Ad ambienti e colori verdastri, marroni, grigi e giallognoli si alternano neon verdi e blu, led, laser, glitter. Ogni personaggio è perfettamente caratterizzato da costumi e make-up: gli occhi di Maddy enfatizzati da spesse righe di eye-liner e strass ed il suo corpo vestito da capi d’abbigliamento che sembrano usciti da Fashion Nova, Jules che nella prima stagione ha un trucco fiabesco ed un abbigliamento da Sailor Moon e che nella seconda stagione si inspessisce di vestiti larghi volti a marcare una sua acquisita disillusione, Kat che veste latex e borchie per sottolineare una presa di controllo sul proprio corpo non conforme agli standard di bellezza. A Tabi boots di Margiela, sandali Prada e microbags di Balenciaga si contrappongono camicie di flanella, giacche di jeans da mercatini dell’usato e pantaloni cargo di tre taglie più grandi.
È tutto troppo, in Euphoria: troppo glamour, troppo patinato, troppo drammatico. E se a volte tali “troppo” sembra lo rendano inverosimile, risultato di un’eccessiva enfasi formale e sostanziale sul pathos tale da apparire autoindulgente, è innegabile che le forme che questa serie TV assume rispecchino con grande accuratezza l’intersezione fra l’estetica Gen Z e i turbamenti tipici del crescere.
Il contesto è quello dei suburbs americani, dove villette a schiera con portici e massicci portoni di legno si contrappongono a case prefabbricate, per certi versi simili ad una qualunque provincia italiana dove vi sono le belle case del centro e i palazzoni di cemento in periferia.
Le tematiche, anche per sottolinearne l’intramontabilità, sono riassumibili con una frase di Joan Didion da Slouching Towards Bethlehem: “The themes are always the same. A return to innocence. The invocation of an earlier authority and control. The mysteries of the blood. An itch for the transcendental, for purification. […] They are sixteen, fifteen, fourteen years old, younger all the time. An army of children waiting to be given the words”.
Ed è vero, i temi sono sempre gli stessi: l’abuso di sostanze stupefacenti causato da un lutto incolmabile o da una realtà dalla quale si cerca in tutti i modi di fuggire, i daddy issues esacerbati dal vivere in una famiglia disfunzionale, la body positivity con i suoi lati più coercitivi, l’identità di genere, la sessualità vissuta online che sfocia in slut-shaming, l’idea di non meritarsi amore, il sentirsi sbagliati in ogni situazione, la sensazione di essere imprigionati in una dimensione che non si sente propria.
Il risultato è una messa a fuoco sull’adolescenza che molto ricorda Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti: spietata e confusa, un periodo claustrofobico di incessante scrutinio che fa sentire soli ed irrecuperabili, qualcosa da dimenticare piuttosto che da romanticizzare o ricordare con affetto.
E per quanto le critiche e le perplessità mosse alla serie siano comprensibili (i “troppo” di prima), esse mancano un dettaglio importante: Euphoria narra un’adolescenza che esiste, è presente, con tutte le sue nevrosi e i suoi disagi, e che soprattutto in Italia (per quanto vi siano delle differenze sostanziali fra l’essere adolescenti in Italia e negli Stati Uniti) viene resa invisibile o bacchettata dagli adulti con slogan paternalistici. Chi si ricorda quella fallimentare ed inquietante pubblicità progresso degli anni Novanta “Se ti droghi ti spegni” con i ragazzi dagli occhi vuoti? Ecco, infatti.
Euphoria narra la fine del mondo, e per questo motivo è certamente consolante.
Dunque chi non si è mai decolorato dopo una relazione finita male (“Ossigenarsi a Taranto è stato il primo errore, l’ho fatto per amore di un incrociatore”, come scrisse Arbasino), chi non ha mai pensato di silenziare le voci nella testa con alcool e stupefacenti, chi non si è mai fatto le canne nei posti più desolanti della propria città, chi guardando le foto di quando aveva sedici anni riesce a riconoscersi con tenerezza e malinconia, e chi in generale invoca l’adolescenza come tempo di massimo splendore del sé, allora scagli la prima pietra.